“Per tutelare il benessere personale e familiare, una psicoterapeuta non può portarsi a casa il lavoro”. Intervista alla psicologa Saragey Rizzello.
Cellino San Marco, comune posto esattamente al confine fra le province di Brindisi e Lecce, famosissimo per essere la patria di Albano Carrisi, è anche il paese natale, e quello nel quale opera principalmente Saragey Rizzello, psicologa, specializzanda al quarto anno di psicoterapia in indirizzo cognitivo-comportamentale.
Il suo fantasioso nome, ci racconta simpaticamente, è frutto di un vistoso errore dell’impiegato dell’ufficio anagrafe: i genitori volevano registrarla infatti come Sarajane.
Sposata con Giuseppe e madre di Filippo, Sarajey ci accoglie nel suo accogliente studio durante una mattinata temporalesca.
Dott.ssa, quali sono le specificità dell’indirizzo cognitivo-comportamentale?
Prima di prendere questo percorso valutai anche gli altri indirizzi di psicoterapia, mi convinsi a prendere questo leggendo il piano di studi ma anche per la sua praticità, per la sua applicabilità diretta.
Che vuol dire…
Attento all’hic et nunc, cioè al qui ed ora, alla situazione odierna delle persone, che dà importanza alla relazione terapeutica, ma anche alla storia personale del paziente, imprescindibile da considerare. Le capacità di recupero di una persona sono da valutare in base al suo stato attuale, a differenza di quello che fa ad esempio l’indirizzo psico-dinamico, che si focalizza molto sul passato e sui suoi traumi.
Aiuta essere psicoterapeuti nella vita di tutti i giorni?
Sì, assolutamente. A capire molti aspetti della vita quotidiana, soprattutto a livello relazionale. Aiuta a essere più intuitivi, aiuta a comporre il puzzle delle varie situazioni, predispone ad avere strumenti di analisi migliori nella vita di tutti i giorni, verso le situazioni personali. Non risolve da solo i problemi, ma aiuta a comprendere i punti di vista soggettivi delle persone, a non assolutizzare
La questione della salute mentale è sempre stata un po’ scabrosa, accomunata com’è a situazioni di disagio psico-sociale. In realtà tutti nella vita attraversiamo fasi nelle quali possiamo beneficiare di un supporto psicologico. Immagino tu possa confermare.
Senza dubbio. In merito alla scabrosità, a volte mi trovo in situazioni nelle quali emergono proprio dei tabù in riferimento alla questione, del tipo “tanto non serve a niente…”. In realtà tutti noi, nel corso della vita, affrontiamo momenti nei quali è necessario avere un supporto di tipo psicologico. Diciamo che c’è chi è più fortunato, e questo aiuto lo ritrova nella vita e nelle relazioni di tutti i giorni, ma comunque, in determinati casi, servirebbe sempre l’ausilio di qualcuno che possa dare un giudizio scevro da ogni tipo di condizionamento personale, senza implicazioni emotive, più oggettivamente. Se mi limito a chiedere un supporto ad una persona della famiglia o ad un amico, c’è una componente emotiva, poco oggettiva, e comunque non professionale, che influenza la valutazione.
Esiste anche una differenza, correggimi se sbaglio, fra la follia mentale conclamata e disturbi di carattere più lieve, legati all’umore?
Potremmo dire che esistono problematiche più di “stato”, circoscritte a particolari momenti difficili della vita, come un lutto, un disturbo post-traumatico da stress, stati d’ansia relativi al momento che il paziente si ritrova ad attraversare. Esistono poi invece situazioni attinenti più all’ambito psichiatrico, tendenzialmente cronicizzate ma non disgiunte da gravi casi di acuzie, come sindromi persecutorie o legati a fobie sociali. Rientrano, entrambe le fattispecie, nel disagio psichico, ma la seconda tipologia si caratterizza soprattutto per la necessità dell’ausilio farmacologico, la cui prescrizione attiene al medico specialista.
Il patto terapeutico che cos’è?
Il patto terapeutico è qualcosa di imprescindibile, si tratta di un’alleanza vera e propria che permette, se costruita opportunamente, permette una buona riuscita dell’intervento.
Condivisione delle responsabilità potremmo definirla anche?
Sì, ma non solo. Quando non si realizza questa dimensione, il terapeuta dovrebbe essere in grado di far capire all’assistito che qualcosa non sta funzionando.
Quali sono i disturbi nei quali ti capita di imbatterti più frequentemente nei casi che segui?
Disturbi d’ansia, in maggior misura negli adolescenti, disturbi bipolari, nei quali risulta molto difficile far comprendere l’importanza di far ricorso alla farmacologia e disturbi depressivi.
E’ difficile contemperare alle esigenze familiari svolgendo una professione come la tua?
Sì, se non si ha una rete di supporto opportuna sulla quale poter fare affidamento. Avere un bambino piccolo, in particolare, implica la fatica di doversi staccare e di delegare in determinate situazioni ma anche quella di “non portarsi a casa il lavoro”…
Cioè?
Non ci si può portare a casa il lavoro nel senso che non bisogna portare a casa le problematiche ed i disagi di cui le persone ti rendono interpreti. Lavorare per 4 o 5 ore consecutive, accogliendo storie di difficoltà e di disagio di diverso tipo impone poi la capacità di non farsene condizionare nei rapporti privati, in ambito familiare. I cosiddetti cicli inpersonali che si attivano fra terapeuta e paziente diventano destabilizzanti nel momento in cui ci si lascia sopraffare dall’empatia.
Con le tue ultime riflessioni ci avviamo già verso l’ultima domanda che volevo farti: è più bello o faticoso entrare nella vita personale degli altri per aiutarli?
Eh…bella domanda! E’ bello, perché ti senti gratificata, soprattutto quando ci sono i risultati, quando riesci ad aiutare le persone a mettere ordine nelle loro vite, è una delle più grandi soddisfazioni che si possono cogliere questa. Allo stesso tempo però è certamente faticoso, sia per la complessità di ogni singolo caso sia dal punto di vista emotivo…
Fatica sia nel cercare di entrare nelle sfaccettature di ogni singolo caso, di comprenderle, sia dal punto di vista emotivo, del farsi carico delle sofferenze altrui…
Esattamente.
Grazie molte!
Grazie a te.