Avetrana non vuole perdere l’anonimato nel quale è tornata a vivere. E fa benissimo.

Avetrana è pronta a fronteggiare lo scomodo, prevedibile interesse mediatico che si riaccenderà su di essa a seguito del rientro in paese, domenica prossima, di Michele Misseri, il quale finirà di scontare in questi giorni, con oltre un anno di anticipo in virtù della sua condotta esemplare, la pena di 8 anni inflittagli, nel corso del processo per l’uccisione della nipote Sarah Scazzi, per soppressione di cadavere.
Lo farà, pare che manchi solo la conferma ufficiale, con un’ordinanza comunale voluta dal Primo cittadino, il sindaco Antonio Iazzi, volta a vietare il transito di veicoli non autorizzati in via Grazia Deledda, dove c’era, e c’è ancora, la residenza di Michele Misseri, l’abitazione al cui interno Sarah, chiunque l’abbia uccisa, trovò la morte. “Vogliamo solo che non ci sia più lo stesso circo mediatico dell’epoca, per rispetto verso la memoria di Sarah”, queste le parole di Iazzi.
E come dare torto al sindaco? Quello di Avetrana è stato uno dei casi di cronaca nera più mediatici della storia italiana. A dispetto della posizione marginale della località, lembo estremo meridionale della provincia di Taranto, ai confini con quelle di Brindisi e di Lecce, del suo non essere mai stata oggetto di particolare interesse per ciò che essa ospita al suo interno, dell’estrema tranquillità del suo piccolo centro abitato, della sua cittadinanza fatta da persone laboriose e senza grilli per la testa (non vivrebbero d’altronde in un luogo che non consente di “coltivarli”) non esiste persona adulta in Italia, almeno fra quelle minimamente aggiornate, che non conosca, dopo il 2010, l’esistenza di Avetrana.
Facile dire che le motivazioni della sua improvvisa popolarità furono tutt’altro che edificanti. Ma di omicidi efferati, anche ai danni di minorenni, ne accadono di continuo, la cronaca è lì a dimostrarcelo. La tragica vicenda dell’uccisione di Sarah Scazzi potè “godere”, per diventare evento mediatico, di tre fattori: innanzitutto il fatto che essa non si risolse subito, che passarono molti giorni fra la scomparsa nel nulla della giovane ed il ritrovamento del suo cadavere nelle campagne di contrada “Mosca”, dove proprio Michele Misseri condusse gli inquirenti. In quei 40 e passa giorni, si succedettero, senza soluzione di continuità, ipotesi e piste disparate, con un’attenzione mediatica via via crescente.
Il secondo fattore fu la predisposizione dei suoi protagonisti della vicenda a prestare disponibilità verso le innumerevoli occasioni offerte dai mezzi di informazione, interessati ad approfondire tutti i risvolti della vicenda. E passi per la famiglia di Sarah, per sua madre e per suo fratello, che erano alla disperata ricerca di informazioni sulla sorte della ragazza. Divennero tuttavia personaggi noti anche la cugina Sabrina e la zia Cosima, che il processo avrebbe riconosciuto come le responsabili materiali dell’uccisione di Sarah, e lo zio Michele certamente, col suo italiano sgangherato frammisto al dialetto dei contadini del nostro Salento. E poi il giovane Ivano, amico di Sabrina ma pure di Sarah, ed in questa contesa, a dispetto delle differenti età dei protagonisti coinvolti, starebbe uno dei moventi dell’aggressione mortale. E poi il fioraio e l’amica di famiglia, che furono testimoni dell’inseguimento del quale Sarah sarebbe stata oggetto dopo aver tentato di fuggire, una prima volta, dall’abitazione della cugina e degli zii. Insomma, un intreccio da telenovelas.
Infine, il terzo fattore che contribuì alla popolarità di questo caso di cronaca, fu la presenza di contenitori televisivi che accompagnavano le indagini giornalmente, per lunghe ore, passo dopo passo, arricchendo i fatti accertati con un’infinità di discussioni accademiche e di pettegolezzi gratuiti, con il corollario di ospiti, specializzati in criminologia e non, impastando la vicenda anche con tanti ingredienti che risultavano (e risultano, perché la propensione a fare questo tipo di televisione del “dolore” è più viva che mai) francamente indigeribili.
Ecco, il caso di Avetrana è anche la definitiva consacrazione della tv del dolore e dei suoi rituali. Anche una detective, per quanto brava e fotogenica, come Roberta Bruzzone, deve moltissimo a questo caso per la sua carriera. Avetrana è in sostanza uno di quei luoghi d’Italia, come Cogne, Novi Ligure o Garlasco, che la televisione (i social network all’epoca avevano un ruolo ancora marginale) ha eretto a casi mediatici per eccellenza della cronaca nera.