La scrittura sincopata dei social influenza negativamente le nostre competenze linguistiche, non solo dei nativi digitali.

Nell’ambito del progetto Univers-Ita è stata condotta da Nicola Grandi, Professore ordinario di Glottologia e Linguistica all’Università di Bologna, una ricerca su un ampio campione di studenti universitari, 2137 per la precisione, provenienti da 45 atenei del panorama nazionale, volta ad indagarne sistematicamente le competenze linguistiche.
Illustrando i risultati emersi dalla ricerca, il professor Grandi ha messo in rilievo come ogni elaborato presentasse mediamente 20 errori, ma il dato più significativo su cui riflettere, più che in un’analisi strettamente quantitativa, va rivelato nella tendenza a riprodurre, nello scritto di carattere formale, la stessa sintassi frammentaria, elementare, che caratterizza la comunicazione dei social media. In linguistica si chiama diafasia quella competenza che consente all’individuo di sapere adattare opportunamente il proprio codice linguistico al contesto ed alle necessità che esso richiede a tutti i livelli: dal lessico alla sintassi, alla punteggiatura. Nessuno vieta cioè di scrivere sui social in maniera sciolta, tenendo in poca o nessuna considerazione i dettami della bella forma argomentativa. Cicerone non tornerà dal luogo in cui si trova per rimproverare ad alcuno lo stile di scrittura su Facebook o su Whatsapp. Il problema subentra nel momento in cui emerge l’incapacità di saper adattare stile e registro alle situazioni più formali, quali quelle di un compito in classe, di un esame, di una prova concorsuale, ma pure di uno scritto che si voglia indirizzare a qualcuno per vedere tutelati i propri diritti nella società.
Leggendo il risultato della ricerca mi è venuto in mente un recente contributo che, sullo stesso argomento, ha pubblicato sul Quotidiano di Brindisi e Lecce un osservatore sempre acuto come Antonio Errico. Il titolo dell’articolo, “Un’emoticon ci seppellirà: la lingua scarna del presente”, coglie fin da subito quale sia la madre di tutti i problemi: riempire un messaggio di faccine, sorridenti o tristi che siano, di abbreviazioni e luoghi comuni suggeriti dagli algoritmi dei mezzi di comunicazione odierni, richiede certamente meno fatica del parto laborioso che invece, tante volte, è connaturato alla scelta del vocabolo che, in maniera più espressiva, rappresenti il nostro punto di vista. Ma solo e soltanto questa è, e sempre sarà, la palestra tramite la quale acquisire uno stile di scrittura che consenta all’individuo di aspirare a tratteggiare, anche tramite questo nobile esercizio, la propria unica, irriducibile personalità.
Poichè, scrive inoppugnabilmente Errico, “non solo il mezzo modifica sempre il messaggio, ma l’uso conforma il pensiero. (…) Così abbiamo formattato il linguaggio e stiamo rischiando di formattare anche il pensiero, di contrarre non solo gli spazi del linguaggio ma anche quelli della mente. Corriamo il rischio della digitalizzazione della mente”.