Sul deposito unico nazionale di scorie nucleari certa strumentalizzazione politica è un disco rotto.

LA QUESTIONE.
Quella di un sito che faccia da deposito unico nazionale delle scorie radioattive prodotte dalle quattro centrali nucleari attive in Italia fino agli anni ’80 del Novecento, così come di quelle che derivano dalla medicina nucleare, è un’ottemperanza alla quale il Governo deve trovare soluzione, al fine di non dover continuare a pagare alla Francia le spese di “affitto” di questo materiale tanto speciale e pericoloso per la salute pubblica.
La CNAPI, sigla che sta per Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee, contiene l’individuazione di una mappa nazionale con 67 siti che l’ISIN, l’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione, con l’accordo del Ministero dell’Ambiente dell’allora governo Conte “due”, aveva elaborato nel 2020.
In un territorio come quello italiano, tendenzialmente sismico, cosa della quale nessuno ha, come è ovvio, responsabilità, ma anche con gravi problemi di dissesto idrogeologico (su questo aspetto, invece, le responsabilità umane, a vari livelli, sono palesi) le possibilità di individuare una zona sufficientemente sicura, al riparo da sismi ma anche da infiltrazioni del terreno, si restringono notevolmente. Ma 67 siti “papabili” non costituiscono numero esiguo.
IL SENTIMENTO COMUNE
Quanto provoca stigma e paura nei confronti di questo necessario intervento è, a parere di chi scrive, il fatto che un solo sito debba farsi carico dell’intero ammontare delle scorie esistenti, che non vi sia su questo quell’autonomia territoriale e amministrativa di cui tanto si discute, notorio cavallo di battaglia della Lega fin dalle sue origini e ora al centro di un nuovo, contestato, disegno di riforma legislativa. Suddividere il territorio nazionale in 3 o 4 aree geografiche, e individuare un sito per ognuna di esse, sarebbe un modo per svelenire il clima ma, evidentemente, gli esperti ritengono non sia la soluzione ottimale o maggiormente sicura.
LA POLEMICA POLITICA
L’europarlamentare dei Verdi, Rosa D’Amato, ha pubblicato una nota per denunciare come 14 delle 67 aree individuate si trovino fra Puglia e Basilicata, regioni che a suo dire scontano già rilevanti danni ambientali dovuti alla produzione industriale, e cita a proposito i siti di Tempa Rossa, in provincia di Potenza, dove esistono importanti giacimenti di estrazione di combustibili fossili, e l’impianto siderurgico di Taranto, che non ha bisogno di presentazioni. E, in verità, se ne potrebbero citare molti altri di siti più o meno inquinanti esistenti sul nostro territorio, Brindisi e Taranto specialmente sono state città alle quali i governi della Prima repubblica diedero, con il consenso dei rappresentanti politici locali, connotazione prettamente industriale, al fine di combattere la fame di lavoro. Questo non è in discussione. L’europarlamentare coglie l’occasione anche per accusare Matteo Salvini del fatto che non vi siano aree idonee individuate in Veneto e Lombardia, tradizionali feudi leghisti. Tuttavia su questo ci pare che la D’Amato faccia un’indebita strumentalizzazione politica della vicenda. Non è stato Salvini a individuare i siti (ne esistono comunque diversi anche nelle regioni del nord) la cui scelta, come si è detto, deriva da ponderate valutazioni di carattere geologico, che non possono essere fatte da chi non abbia solide competenze in materia. Peraltro, giova ricordarlo, le scorie nucleari hanno certamente un impatto catastrofico se liberate nell’ambiente, ma opportunamente sigillate e stipate, in depositi naturali impermeabili, esso è del tutto insignificante.
Quando la tecnologia consentirà di spedire i combustibili nucleari esausti sul Sole, l’Umanità sarà certamente più contenta e sollevata. Nel frattempo è puro opportunismo far passare l’idea che il problema, che tutti gli altri Paesi hanno già affrontato, non esista o che solo in Italia non si possa affrontare, quale che sia l’idea sul nucleare civile di ognuno.