Cibo comune o rara prelibatezza? Sua Maestà il Pane di Altamura

Cibo comune o rara prelibatezza? Sua Maestà il Pane di Altamura Predrag Matvejevic scrisse: “Ci ha donato il sapore del suo pane. Quando il destino ci spinge o ci esilia in un’altra terra, ce lo portiamo con noi, in noi. Chi perde questo sapore, perde una parte del proprio paese e di sé stesso”.
Le origini del pane, uno dei prodotti alimentari più consumati nel mondo, sono avvolte nel mistero. Un capitolo decisivo l’hanno scritto gli Egizi, eccellenti agricoltori, i primi veri panettieri che hanno posto le basi affinché il pane potesse conoscere un successo “mondiale”.
Ai tempi in cui i Romani ancora si nutrivano di una semplice pappa di farina e i Greci di una specie di sfoglia cotta sul fuoco, gli Egizi già applicavano con quella che sarebbe stata chiamata la “lievitazione naturale”. I Greci perfezionarono la costruzione dei forni, portando quest’arte ad elevati livelli, e produssero pane in tante ottime specie.
Nel periodo classico tra il VI ed il V sec. a. C. c’erano ben 72 tipi diversi di pane: 50 di impasto semplice e 22 più complessi.
A Roma il pane entrò nell’uso quotidiano soltanto verso la fine del periodo della Repubblica: la sua cottura fu introdotta nel 168 a. C., ad opera di alcuni schiavi catturati in Macedonia dopo la sconfitta del re Perseo.
In tutte le parti di Italia, ma anche ad Altamura, era tradizione che la base massosa venisse fatta dalle massaie, che la sera preparavano la forma di pane e la mettevano, avvolta in un panno, a lievitare nella “madia”.
All’alba seguente il fornaio ritirava la massa impastata e poi si recava al forno per farla cuocere. Il fornaio procedeva alla formatura e con il marchio in legno o in ferro battuto, vi riportava le iniziali del capo famiglia, garantendo il legame tra ogni singola forma di pane infornata e le rispettive famiglie di origine.
All’epoca dell’Impero Romano il pane era l’alimento base per gran parte della popolazione e bisognava assicurarlo a tutti. Per questo vigeva un editto che stabiliva: “il pane di frumento fosse più sano e preferibile alla sorta di polenta (puls) e agli altri impasti di cereali in uso, e che era consentito acquistare frumento in pubblici granai ad un prezzo inferiore a quello di mercato”.
Il pane è l’architrave del Mediterraneo. Il mangiarlo ha sempre diviso la sua cultura dalle altre.
Per secoli, il pane è stato l’unico elemento in grado di separare la sopravvivenza dal baratro della fame. Il pane è un luogo della tolleranza e del confronto tra genti diverse, è quello che ci si mangiava insieme era un’aggiunta, un accessorio: il companatico.
Acqua, farina e un buon lievito, tre semplici ingredienti per un prodotto unico nel suo genere. Il pane fresco artigianale ha una storia, poiché è fatto per lo più con farine del territorio e non conosce additivi per migliorarlo, spesso viene impiegato il lievito madre, che può essere un pezzetto di pasta della precedente lavorazione oppure un impasto a base di farina, acqua e zuccheri che, mescolati tra di loro, fermentano spontaneamente, producendo anidride carbonica, da cui la lievitazione naturale. Se ne contano oltre duecentocinquanta tipi, con numerose varianti.
La tradizione di un cibo che non manca mai sulle tavole si rinnova in ogni paese del mondo, anche se con forme e ingredienti differenti.

In Russia è sempre nero, mentre in India non è lievitato e viene cotto sulle piastre calde. In Francia il pane simbolo è la famosa baguette.
Per i cristiani il pane rappresenta il corpo di Cristo. Durante la celebrazione eucaristica istituita da Cristo nell’ultima cena, l’ostia benedetta diventa la consacrazione del pane: “nella notte in cui fu tradito Gesù prese il pane, lo spezzò e disse “questo è il mio corpo, che è per voi”.
In tutti i popoli con la cultura del pane c’è rispetto e fede, è sana e santa abitudine di non gettare via il pane. In passato se un pezzetto cadeva in terra bastava raccoglierlo, soffiarci sopra, baciarlo. Una tradizione tramandata dalle nonne alle mamme e ai piccoli che, celava un profondo rispetto per il cibo frutto di duro lavoro.
Da sempre quindi, il pane è stato ed è il sigillo della cultura, lo si ritrova, nelle sue mille varietà, anche in molte opere d’arte, dall’antico Egitto alla pop art.
Il pane dunque simbolo culturale, religioso, segno patrimoniale e culturale di tutto il mondo, delle molteplicità dei diversi popoli che abitano la terra, ognuno con il proprio credo, la propria usanza e tradizione.

Da sempre il pane ha ricevuto molte attenzioni sia per la sua importanza alimentare, che per il suo valore simbolico. I nostri anziani ci hanno insegnato a non buttarlo mai, buttarlo significa quasi un sacrilegio, data l’importanza che ricopre all’interno della fede religiosa.
Il pane è stato da sempre l’elemento principale dell’alimentazione campagnola. Un rito importante, perché il pane non doveva mai mancare ed anzi, molto spesso, era l’unica alimentazione; era mangiato condito, abbrustolito, bagnato nel vino.
Nutriente, profumato e buono, il pane accende i quattro sensi e nel corso dei secoli ha assunto forme e tipologie che l’hanno reso un cibo fondamentale per la nostra dieta.
Il pane, come elemento base del regime alimentare delle popolazioni dell’Alta Murgia, prodotto tradizionalmente in grandi pezzature, nella sua forma caratteristica, denominata “u sckuanète”, rappresentava un atto corale, sul piano sociale e culturale, nel quale la sfera familiare e privata si incrociava con quella pubblica.
La principale caratteristica del pane, preservatasi nel tempo, è la durevolezza, indispensabile per assicurare il sostentamento di contadini e pastori nelle settimane che trascorrevano lontano da casa, al lavoro nei campi o nei pascoli, sulle colline murgiane.
Il pranzo di questi lavoratori consisteva infatti essenzialmente in una zuppa di pane insaporita con olio di oliva e sale. Fino alla metà del secolo scorso si poteva udire per le strade di Altamura il grido del fornaio che annunciava, all’alba, l’avvenuta cottura del pane.
Immutati nel corso dei secoli sono gli ingredienti: semola rimacinata di grano duro, lievito madre, sale e acqua, così come il processo di lavorazione, articolato in cinque fasi: impastamento, formatura, lievitazione, modellatura, cottura nel forno a legna.
La qualità del Pane di Altamura D.O.P. è garantita dal Consorzio di Tutela, investito delle funzioni di controllo, promozione e valorizzazione della DOP.
Il pane di Altamura conosciuto in tutto il mondo, ha ottenuto nel 2003 la prestigiosa certificazione europea D.O.P. ( Denominazione d’ Origine Protetta ).
Ricavato dalla macinazione dei grani duri delle varietà “appulo”, “arcangelo”, “duilio” e “simeto” della zona geografica delimitata nel disciplinare di produzione che comprende i territori dei Comuni di Altamura, Gravina in Puglia, Poggiorsini, Spinazzola e Minervino Murge.
E’ il primo prodotto della categoria merceologica Panetteria e prodotti da forno a vantare questo bollino europeo di qualità.
Il pane di Altamura, frutto di una tradizione secolare, si ottiene mescolando la semola rimacinata di grano duro 100% locale e certificata, con acqua e lievito naturale rigenerato ormai da decenni, detto “ lievito madre ”.
Come in passato, ancora oggi ad Altamura, anche dopo diversi giorni, il pane raffermo non viene mai buttato, bensì riutilizzato in diversi modi in prelibate ricette come: cialda fredda, bruschette, pancotto, pane in carrozza, polpette e tante altre.
Il pane di Altamura, oltre ad essere un volano di sviluppo della comunità murgiana, è diventato nel corso degli anni un brand internazionale del “Made in Italy”, che dà lustro alla città rifondata da Federico II di Svevia.

Sulle rive del Mare Nostrum, dalla Mesopotamia alle tavole del mondo intero, il pane è stato il sigillo della cultura. “La poetica del pane è dispersa come i chicchi nello spazio e nel tempo, fra i paesi e i popoli, nella quotidianità e nell’eternità. Ne scopriamo la presenza nella poesia, nelle immagini, nella preghiera, negli attimi brevi della vita e nella «lunga durata» della storia. Ce la portiamo dentro di noi, ricordandola e dimenticandocela nello stesso tempo”. (Predrag Matvejević, Pane nostro, 2015).